Romolo Tavoni 1926-2020

Articolo pubblicato il 31-12-2020

Romolo Tavoni 1926-2020

Con Romolo Tavoni se ne va uno degli ultimi protagonisti del periodo fondativo della leggenda di Maranello. Gianni Cancellieri ha regalato ad AISA il testo di una bella intervista a Tavoni del 2001.

TAVONI, OSCAR DELLO SPORT

di Gianni Cancellieri

In famiglia lo chiamano Oscar. Ma sì. Tavoni, un pilastro storico dello sport dell’automobile, noto da decenni in tutto il mondo come Romolo, per i suoi è Oscar.

– Come mai, Tavoni? Si tratta di un soprannome?

“No no, è il secondo dei miei due nomi, il primo è effettivamente Romolo e fu scelto seguendo le simpatie fasciste dei nonni paterni: è un nome che richiama inconfondibilmente l’antica Roma”.

– E Oscar?

“Quello mi fu dato per accontentare i nonni materni, socialisti. Un nome privo di riferimenti ideologici, un nome terra terra e che finisce per erre, come tanti qui nella Bassa, che è piena di Walter, Iller, Ener e via così”.

– È nato qui a Casinalbo, più o meno a metà strada fra Modena e Maranello?

“No, sono nato a Modena, il 30 gennaio 1926. Mio padre, Mario, si trasferì qui nel 1930, perché andò a lavorare in uno dei tre grandi salumifici che insieme a qualche piccola industria meccanica e all’agricoltura reggono l’economia locale”.

– Da chi era composta la famiglia?

“Da mio padre, come ho detto, che aveva ventott’anni, e da mia madre, Fernanda Luppi, nativa di Soliera, che ne aveva venticinque. Poi c’ero io, che di anni ne avevo quattro, e mia sorella Edda che nacque proprio in quel 1930”.

– Ha incominciato la scuola qui?

“Sì, ho fatto qui le elementari, poi le medie a Modena, avanti e indietro con il treno, e infine l’istituto tecnico per ragionieri Jacopo Barozzi. Ma non arrivai al diploma. Avevo appena iniziato il penultimo anno quando, il 30 ottobre 1943, fui arruolato nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana”.

 E ci rimase fino alla fine?

“Ma neanche per sogno. Dopo sei giorni passati a Modena, in una caserma dell’artiglieria, mi sono dato disertore. Prima mi sono nascosto da una zia, a Sorbara, poi sono scappato in montagna, sull’Appennino tosco-emiliano. Poi ho raggiunto i gruppi partigiani della Bassa. Ma non racconto volentieri questa storia”.

– Perché?

“Perché non sono né un eroe né nient’altro. Perché è una vicenda tragica, che è passata sopra la gente con un costo umano allucinante. Non c’è una casa qua intorno che non abbia avuto almeno un morto, da una parte o dall’altra della barricata. Molti – morti o sopravvissuti – non hanno capito perché nella guerra 1915-18 abbiamo combattuto i tedeschi, poi siamo diventati loro alleati, poi li abbiamo combattuti di nuovo, poi abbiamo incominciato a spararci fra di noi, magari approfittando della guerra civile per dar vita a faide o regolamenti di conti personali. Come diceva don Pino Pavia, la nostra generazione ha una grossa responsabilità: ha imparato e poi insegnato a ragionare con un pezzo di ferro in mano”.

– Chi era don Pavia?

“Un prete a dir poco singolare. Era il parroco di Maranello, al quale si rivolgeva di tanto in tanto questo o quel dipendente della Ferrari che si riteneva… cristianamente bistrattato all’interno dell’azienda. Don Pino cercava di interporre i suoi buoni uffici con il Commendatore, con il quale spesso giocava a carte. Ma andava sempre a finire che il gioco lo assorbiva totalmente, anche perché Ferrari barava…”.

– Barava?!

“Sì, e con molta abilità. Se poteva imbrogliava, per poter poi andare a dire al dottor Caselli, il farmacista, che aveva spennato don Pavia”.

– E don Pavia?

“Beh, per… legittima difesa aveva imparato a barare anche lui, ma per far questo doveva impegnare tutta la sua attenzione, sicché le perorazioni dei dipendenti andavano a farsi benedire…”.

– Torniamo al dopoguerra.

“Nel settembre del 1945 andai a Modena e incontrai il mio professore di ragioneria di due anni prima, Anselmo Benedetti, il quale mi salutò con grande calore, volle sapere tutto e infine mi consigliò insistentemente di completare gli studi. Ma io per il momento cercavo prima e soprattutto un lavoro. E lo trovai, nel novembre dello stesso anno, nell’ufficio contabilità delle Officine Alfieri Maserati…”.

– Quando si dice il destino…

“Sì, entrai nell’ambiente. Conobbi i fratelli Maserati, il grande Guerino Bertocchi e naturalmente il presidente Adolfo Orsi e suo figlio Omer. Incontri e contatti davvero formativi, se posso dir così: non dimentichiamo che non avevo ancora compiuto vent’anni”.

– Quanto rimase alla Maserati?

“Quattro anni, giorno più giorno meno. Nel 1946 decisi di riprendere gli studi. Uscivo dagli uffici di via Ciro Menotti e andavo a scuola: al ‘Barozzi’ si tenevano corsi serali dalle 20 alle 24. Feci la quarta e la quinta in un anno e nel giugno del 1947 mi diplomai ragioniere. Stavo bene alla Maserati, era un mondo familiare, Adolfo Orsi, più che un presidente, era un amico, quasi un padre. Suo figlio Omer, un autentico gentiluomo. Bertocchi era l’anima dell’azienda”.

– Si respirava già la rivalità con la neonata Ferrari?

“Altroché! Una sfida memorabile si ebbe nell’autunno del 1947, al circuito di Modena, con Ascari e Villoresi primo e secondo sulle nuove Maserati A6 GCS. L’indomani Bertocchi fece sfilare le macchine davanti alla vicinissima Scuderia, poi prese la strada di Maranello e passò ripetutamente davanti alla Ferrari, simulando una prova di collaudo…”.

– Perché lasciò la Maserati?

“Modena, come buona parte dell’Italia e soprattutto l’Emilia, viveva un periodo di grandi tensioni sociali. Gli scioperi erano frequenti e astenersene era impensabile: a fine mese la paga, già non eccelsa, si riduceva di molto. Nel 1949 lessi sul Resto del Carlino l’annuncio di un concorso indetto dal Credito Italiano e decisi di tentare. Mi andò bene. Eravamo in una sessantina a disputarci dodici posti: mi piazzai sesto o settimo. Il 16 gennaio 1950 mi presentai alla sede modenese del Credito Italiano”.

– E da là come ha fatto ad arrivare alla Ferrari?

“Per caso, come spesso avviene nella vita. Bisogna sapere che verso la fine del 1949 Enzo Ferrari era andato al Credito Italiano per esporre un piano che prevedeva la riconversione quasi totale della produzione della sua fabbrica: dalle macchine utensili alle automobili. Per realizzare quell’obiettivo aveva chiesto e ottenuto un’apertura di credito. Poi, prima di andarsene, aveva detto al direttore, il dottor Calanchi: ho un segretario vecchio, non avrebbe un giovane in gamba da darmi?”.

– E il direttore?

“Gli disse che avrebbe cercato di risolvere il suo problema. Così, quando arrivai, mi dirottò immediatamente alla Ferrari. La cosa mi sorprese un po’ ma, si capisce, andai. Con il Commendatore ebbi un colloquio di 50 minuti, una specie di ‘esame’ che comunque superai. Ma il difficile… era di là da venire. Per fortuna, il segretario che dovevo sostituire, il ragionier Zanaroli (un vecchietto mingherlino sempre vestito di nero, che non parlava mai con nessuno, buongiorno, buonasera e basta), il ragionier Zanaroli, dicevo, mi diede istruzioni utilissime”.

– Istruzioni per… l’uso di Enzo Ferrari?

“Possiamo dire così. Mi spiegò, fra l’altro, un dettaglio fondamentale: quando Ferrari urla, significa che deve sfogarsi, non è pericoloso. Quando invece parla sottovoce o tace, fa molta attenzione!”.

– Quali erano le sue funzioni?

“Il mio incarico ne compendiava tre, da tenere ben distinte, da svolgere separatamente, senza commistioni o interferenze: 1) segretario di Enzo Ferrari; 2) segretario della Scuderia Ferrari; 3) segretario della famiglia Ferrari”.

– Lavorava a Modena o a Maranello?

“A Modena, in viale Trento Trieste, negli uffici della Scuderia. A Maranello andavo il martedì, per la riunione dei responsabili di tutti i reparti”.

– Quando incontrava Ferrari?

“Lo vedevo al mattino fra le 8,45 e le 10. Poi lo rivedevo fra le 12 e le 13, per la stesura di lettere da inviare a destinatari con i quali Ferrari voleva gestire i rapporti di persona: organizzatori, banche, istituzioni e via dicendo. Verso le 13 mi diceva: Tavoni, vada a mangiare che ci vediamo alle 9. Indi partiva per Maranello, dove, dopo una colazione al Cavallino, si tratteneva fino a sera, in ufficio e in fabbrica, dove si interessava di ogni benché minimo problema. Cenava alle 20 e verso le 21,30 era di nuovo in Scuderia. L’incontro che concludeva la giornata poteva durare, salvo eccezioni, fin verso le 22-22,30”.

– Un’azienda come la Ferrari, piccola ma con un’attività nazionale e internazionale così intensa, non era facile da mandare avanti.

“No di certo. In quegli anni Ferrari controllava la contabilità con un’attenzione addirittura maniacale. La dipendenza dal credito bancario era molto pesante e lo preoccupava. Ricordo una sua battuta: se tre banchieri di Modena vanno a pranzo insieme e si informano reciprocamente circa l’esposizione della Ferrari, io chiudo”.

– Eppure non si è mai arreso, né in corsa né in azienda.

“Mai. E bisogna tener conto del fatto che, a differenza di altri costruttori, forse a differenza di tutti, non finanziava l’attività sportiva con la vendita delle automobili. Al contrario, finanziava la fabbrica con gli introiti delle corse. Il punto di svolta fu la vittoria di González a Silverstone, nel G.P. di Gran Bretagna del 1951: da quel giorno, sabato 14 luglio, che vide il primo successo della Ferrari in una gara del campionato del mondo di Formula 1, prese coscienza del fatto che le sue macchine erano protagoniste al massimo livello e si batté per ottenere e ottenne ingaggi sempre più elevati, un milione o un milione e mezzo e oltre per ogni macchina schierata al via. Ingaggi che i suoi avversari non spuntavano”.

– Così riusciva a far quadrare i conti.

“Su una cosa, in particolare, non transigeva: anche nei momenti più duri pagava salari e stipendi dei suoi dipendenti con una puntualità quasi ossessiva. E se l’ultimo giorno del mese cadeva di sabato o di domenica, non pagava il lunedì come avrebbe potuto, ma il venerdì, un giorno prima”.

– Per il resto, risparmiava su tutto?

“Sì, anche sull’abbigliamento personale. Per sé spendeva pochissimo: credo avesse non più di tre vestiti, uno per l’inverno, uno per l’estate, uno per la mezza stagione. E teneva la stessa cravatta finché non si macchiava e doveva buttarla via. Le risorse erano tutte per l’azienda, fino all’ultimo centesimo, tutto il resto passava in secondo piano”.

– Si racconta che tiranneggiasse anche i fornitori…

“Eccome! Faceva ordinare, supponiamo, cinque telai alla Gilco di Milano e Gilberto Colombo, il titolare, chiedeva – dico una cifra a caso – 170 mila lire l’uno. Gliene daremo 120, diceva lui, e faceva condurre a Federico Giberti, responsabile per gli acquisti, un’estenuante trattativa che finalmente andava in porto: Colombo cedeva per stanchezza. A quel punto entrava in scena lui, diceva a Colombo che Giberti si era sbagliato, diceva che non poteva pagare più di 105 e alla fine concordava per 110, promettendo in caso di vittoria una grande pubblicità: con una sua dichiarazione autografa della qualità del prodotto che poteva finire sui giornali, se Colombo lo desiderava”.

– E se la pagava, beninteso.

“Ci mancherebbe. Ma, detto questo, se i fornitori restavano con lui, vuol dire che c’era un perché. Anzi, ce n’erano due: 1) gli garantivano la qualità, oltre ai prezzi, che lui pretendeva; 2) avevano anche il loro bravo tornaconto”.

– Ferrari aveva un occhio di riguardo per gli operai, come ricorda qualche vecchia gloria di fabbrica.

“Questo è vero: non si limitava a garantirgli una paga puntuale. Per dire, molti di loro erano stati assunti per necessità ma con esperienze meccaniche modeste o provenienti addirittura da altri settori: parecchi erano ex contadini, per esempio. Bene, un giorno lui andò dal preside dell’Istituto Corni di Modena e insistette fino a convincerlo a istituire a Maranello dei corsi serali di matematica e disegno per i suoi uomini, che anche grazie a ciò si trasformarono in meccanici da leggenda”.

– Oltre che dal segretario Zanaroli, da chi imparò il mestiere?

“Da tante persone. Da Ugolini, ad esempio, appresi i fondamenti della logistica, la preparazione degli itinerari di viaggio, la prenotazione degli alberghi. Per portare le macchine sui circuiti si lasciava la fabbrica sempre in tempi limite, bisognava conoscere le strade, i valichi, le dogane, tutto quanto.

– Cos’altro le faceva fare Ferrari?

“Cosa non mi faceva fare! Per esempio, dovevo anche gestire i contratti con i piloti. Il contratto, a dire il vero, era di un tipo solo, ma con delle variabili, commisurate al valore che Ferrari attribuiva al singolo corridore. Per Ascari – oltre all’antico affetto per suo padre – aveva una grande considerazione e gli concedeva il massimo: 50% degli ingaggi e dei premi nonché dei contributi di tutti gli sponsor tecnici: gomme, benzine, freni, candele, ammortizzatori, tutto. Villoresi dagli sponsor riceveva meno, il 50% dei contributi della Shell e della Pirelli e basta. Villoresi si arrabbiava e, saltando me, andava da lui. Ma non c’era niente da fare. Caro Gigi, gli diceva, tu devi capire, Alberto dev’essere aiutato. Eppoi lui ha famiglia e tu no…”.

– E lei quando mise su famiglia?

“Mi sposai nel 1954, con Marisa Brighenti, una ragazza di Saliceta San Giuliano, classe 1930. Ma non lo dissi a Ferrari, al contrario di quanto avveniva di norma, secondo gli usi e costumi aziendali. Facevano tutti così: posso portare i confetti al capo? E andavano per sentirsi ‘benedire’ con frasi come: ma chi te l’ha fatto fare? Il matrimonio è una gran fregatura, non lo sai? E poi – rivolto alla sposa – si ricordi che il matrimonio vero è quello che si contrae con il lavoro, con l’azienda. E simili piacevolezze. Beh, io non ci sono andato. Dopo il G.P. d’Italia ho chiesto una vacanza di un paio di settimane, per riposarmi, e lui me l’ha concessa. Così mi sono sposato. Lui l’ha saputo casualmente qualche giorno dopo dal capo del personale, Selmi. Naturalmente non ha gradito: figurarsi se poteva accettare di apprendere da terze persone delle notizie riguardanti uomini del suo staff! Comunque non si scompose più di tanto e mi spedì il seguente telegramma: molti auguri a te e anche alla tua signora. Il matrimonio è comunque una fregatura. Spero che il tuo non lo sia”.

– Lei ha avuto tre figlie, ricordo bene?

“Sì, e quattro nipoti, femmine tutte quante. La primogenita è Elisabetta, nata nel 1955, laureata in Lettere e Filosofia: lavora nella biblioteca di Formigine ed è mamma di Elena, che ha sedici anni, e di Anna (11). La seconda è Giordana (1956), diplomata in ragioneria, come me. È occupata in un’industria farmaceutica e ha una figlia diciannovenne, Laura. La terza è Ornella (1961), che ha studiato lingue, lavora in un’azienda di import-export e ha avuto una bambina, Margherita, nel marzo scorso. Ah, mi viene in mente che quando nacque Elisabetta non lo dissi a Ferrari, ma lui ovviamente lo seppe lo stesso e subito. Mi chiamò e mi disse: caro Tavoni, perché non mi mette al corrente delle sue gioie? Io ne ho così poche… E intanto mi aveva già mandato a casa un libretto di risparmio intestato a Elisabetta Tavoni…”.

– Quando passò dall’incarico di segretario a quello di direttore sportivo?

“Mi verrebbe da rispondere: mai! Questo perché penso che, fino a quando il Commendatore è rimasto in vita, la Ferrari abbia avuto un solo direttore sportivo: lui stesso. Comunque l’incarico esisteva. Prima di me erano stati d.s. Federico Giberti (1947-1951), Nello Ugolini (1952-1955) ed Eraldo Sculati (1956). Quest’ultimo fu confermato anche per il 1957 ma, di ritorno dalla Temporada Argentina, tornò a fare il giornalista: il quotidiano romano Paese Sera, che aveva lasciato per venire da noi, gli aveva proposto di riassumerlo come caporedattore”.

– E allora toccò a lei. Fu un’idea di Ferrari?

“No. Bisogna sapere che Ferrari aveva un responsabile tecnico in pista, l’ingegnere Girolamo Amorotti Ferrari (nessuna parentela fra i due) detto Mino. Questi era un uomo di grande competenza, a cui Ferrari doveva molto, anche in senso materiale. Nei momenti più difficili dei primi anni lo aveva tangibilmente aiutato e, in più, andava alle corse per passione, non per ‘mestiere’: insomma, non costava una lira. D’altra parte non aveva alcun bisogno di guadagnare: era uno degli uomini più ricchi di Modena. Ma quando Ferrari gli chiese di assumere anche il ruolo di direttore sportivo disse di no: non voleva saperne di logistica, di trattattive di ingaggi con gli organizzatori e suggerì di mandare me. Ferrari sulle prime protestò ma Amorotti lo convinse dicendogli: ma come, non sei proprio tu a sostenere che mai nessuno è indispensabile? Così ebbi l’incarico, ma Ferrari non mancò di ricordarmi che in ogni caso durante le mie trasferte nessuno avrebbe fatto il mio lavoro in ufficio, cosa di cui peraltro non avevo mai dubitato”.

– Quando incominciò?

“In un giorno tragico: il 14 marzo 1957. Di ritorno da Firenze, dove ero andato a ritirare i visti consolari per la squadra in partenza per la 12 Ore di Sebring, arrivato in Scuderia, seppi che Castellotti si era ucciso all’Aerautodromo. Fu una mazzata tremenda. Eugenio aveva poco più di ventisei anni. Bello, ricco, amabile, veloce, coraggioso, la gente lo adorava…”.

– Come si reagisce in quei momenti?

“Ci si asciuga gli occhi e ci si fa forza. Ci si impone di pensare che la vita continua. Come si reagisce nei giornali quando arriva una notizia del genere e bisogna scriverci su?”.

– Complimenti per la domanda. Quella di Castellotti fu solo la prima “puntata” di una serie nerissima.

“Sì, due mesi dopo ci fu la più spaventosa di tutte: l’uscita di strada di Alfonso De Portago nella Mille Miglia, con una dozzina di morti fra cui parecchi bambini. Un massacro. Pensa che ‘Fon’, superstizioso come non pochi piloti, aveva avuto una sorta di oscura premonizione alla mattina che precedeva la partenza per la Milla Miglia. Eravamo seduti a tavola, nel ristorante dell’albergo di Manerbio, quartier generale della Ferrari, quando lui si voltò di scatto non ricordo se per vedere o indicare qualcosa e urtò un cameriere che gli stava alle spalle e dal cui vassoio si rovesciarono il te e il latte che portava. Al mio paese, disse Fon, rovesciare il te e il latte porta male. Romolo, ti do tutti i miei documenti, se succede qualcosa telefona a mia madre a Biarritz e a mia moglie a New York. Per il resto non dovrai radunare bagagli, niente: la mia vita è tutta nella valigetta ventiquattr’ore. Nelson, il suo compagno per quella corsa disgraziata, gli diceva di lasciar perdere quei discorsi, un po’ lo prendeva in giro…”.

– Quei giorni furono tra i peggiori, se non i peggiori in assoluto, nella storia della Ferrari.

“E non solo della Ferrari. Mia madre mi raccontava che di notte urlavo nel sonno. A Maranello, Ferrari sospese tutte le attività per una settimana, non si vide più né in fabbrica né in Scuderia”.

– Come uscì da quella crisi?

“Ferrari diceva di non avere il dono della fede ma nei grandi momenti di angoscia qualcosa lo trascinava in quella direzione. Si rivolse a padre Alberto Clerici, un tempo parroco della chiesa di San Pietro a Modena (aveva sposato lui, Ferrari, e battezzato Dino, che da piccolo andava a giocare al suo oratorio). Poi era stato trasferito a Cesena, a Santa Maria del Monte. Andammo a trovarlo con Ferrari, con una Fiat 1100”.

– E padre Clerici cosa disse?

“Disse: si prega prima con il cuore, credenti o no che siamo, poi con la mente, in atto di sottomissione a Dio che tutto può. Gli fece recitare il ‘Padre nostro’. E poi aggiunse: Enzo, se sai fare le automobili, che sono strumenti di libertà, di evoluzione, di comunicazione, e se credi in quello che fai, non piantar lì. Ognuno deve fare ciò che sente come propria vocazione”.

– E Ferrari?

“Ringraziò e partimmo. In macchina stette zitto fino a Bologna. Poi mi disse: domattina, riunione. Si ricomincia”.

– Un direttore sportivo può essere amico dei suoi piloti?

“Diciamo che può avere momenti di confidenza amichevole, che può affezionarsi: ma non più di tanto. Gli interessi dei piloti non sempre coincidono con quelli della squadra. Mi riferisco alla mia esperienza: basti pensare che io dovevo far da tramite o da filtro o da consigliere nei rapporti dei piloti con Ferrari. Non tutti avevano la diplomazia e l’astuzia di Ascari, che una volta, di ritorno da Montecarlo, gli disse: Ferrari, il cambio della sua macchina è efficiente e robusto, ma guardi in che condizioni sono le mie mani. Pensi che dopo la corsa c’erano delle belle ragazze che mi chiedevano l’autografo e io non ho potuto firmarne neanche uno… Ferrari rise ma appena Ascari uscì ordinò immediatamente ai suoi tecnici di lavorare sul cambio per migliorarne assolutamente il funzionamento. Non gli si poteva, meglio, non gli si doveva esprimere critiche dirette, a meno che non fossero esplicitamente richieste da lui stesso. L’unica eccezione alla regola era costituita da Mino Amorotti: lui poteva permettersi di dire ciò che voleva”.

– Ferrari imponeva delle strategie di gara, tipo: il tale pilota deve stare davanti al tal altro?

“Ferrari, come è naturale, voleva prima e soprattutto che a vincere le corse fossero le sue macchine. Là dove era in gioco un titolo individuale, si teneva d’occhio la classifica e le chances dei piloti della squadra. Ma questo, stando alla mia esperienza, è un argomento che ai piloti è sufficiente spiegarlo con un po’ di sensibilità e loro capiscono: per esempio, perché nessuno lo spiega a Barrichello? Va be’, questo non mi riguarda”.

– E nelle corse di durata?

“Ecco, lì le cose si complicavano. Dai circuiti io telefonavo a Ferrari puntualmente ogni giorno, a Modena fra le 12 e le 13 oppure a Maranello alle 17,30. Alla fine delle prove lui chiedeva chi dei suoi era andato più forte. Supponiamo che si corresse in Gran Bretagna e che i più veloci fossero risultati Castellotti e Musso: bene, diceva lui, ma vedrai che in corsa, verso metà gara se non prima, Collins e Hawthorn saranno in testa. Cos’avrebbe capito lei? Lo stesso, naturalmente, avveniva negli Stati Uniti con Gurney e Phil Hill. Insomma, al di là delle eventuali simpatie personali, c’erano delle realtà di ordine geopolitico-commerciale che lui aveva sempre presenti”.

– Il 1958 portò altri lutti.

“Purtroppo sì. Luigi Musso perse la vita a Reims, in quel G.P. di Francia che voleva vincere a tutti i costi, sia perché si era convinto di poter diventare campione del mondo sia perché quella era la corsa più ricca di tutte, la vittoria valeva 10 milioni, cinque volte più dei normali premi di traguardo. E lui aveva avviato a Roma un’attività commerciale (importazione di auto americane, le Plymouth) insieme con Mario Bornigia, esponendosi personalmente in misura rilevante. Poco prima della corsa ricevette dal suo socio un telegramma scherzoso ma inquietante: vinci, che domani scade la cambiale. Al decimo giro era secondo, staccato di pochi metri dal suo compagno di squadra Hawthorn. Entrò nella velocissima curva che segue il rettilineo del traguardo e non riuscì a tenere la traiettoria. Perse il controllo della macchina, sbandò, uscì a 250 all’ora e addio”.

– Un mese dopo toccò a Collins.

“Povero Peter. Si era sposato ma non aveva smesso di andar forte. Nel G.P. di Germania, al Nürburgring, era a ruota di Hawthorn, il suo migliore amico. Quando la Vanwall di Brooks li superò tutti e due e andò in testa, Peter superò a sua volta Mike e partì all’attacco. Forse era nervoso, chissà. Sta di fatto che a Pflanzgarten volò fuori andando a schiantarsi contro un albero”.

– Si può immaginare la difficoltà in cui lei si venne a trovare nel gestire quelle situazioni.

“Furono situazioni diverse: in Francia, per esempio, mi aiutarono tutti, sentii come una solidarietà corale intorno a me. In Germania invece fu durissima: all’ospedale di Adenau, una freddezza glaciale, Peter steso su un tavolaccio, nudo, formalità alla tedesca, burocrazia. Per fortuna trovai un aiuto in Artur Keser, il capo ufficio stampa della Mercedes, che si offrì di affrontare la situazione. Tavoni, fidati di me, mi disse, e risolse ogni problema. Da Modena, qualche giorno più tardi, gli chiedemmo di indicarci le spese che aveva sostenuto e sa cosa rispose lui? Che la Mercedes aveva un dovere nei confronti dello sport automobilistico”.

– Ferrari entrò di nuovo in crisi?

“Sì, non dimentichiamo che aveva perso Dino due anni prima e in un certo senso aveva ‘adottato’ Peter. Era molto depresso, voleva piantare tutto. Fu Hawthorn a scuoterlo: non è giusto non finire, gli disse. E aggiunse: guardi, io sono il terzo ma non sono nella lista del 1958…”.

– Sbagliò di pochi giorni.

“Ma sì: il 22 gennaio 1959 si uccise in un incidente stradale, poco dopo aver annunciato il suo ritiro dalle corse, felice e giustamente fiero del suo titolo di campione del mondo. I meccanici lo chiamavano ‘piumbòn’, che si può tradurre piombone, o meglio piede pesante (come il piombo). Life is short, amava ripetere, la vita è breve. In certi giorni era il più veloce di tutti. Aveva perso un rene e questo a volte gli dava problemi di resistenza fisica alla distanza, dissipava più energie. Ma non era un alcolista, come è stato detto, insinuato e anche scritto: è una frottola malevola, nata probabilmente dal fatto che lui raccontò una volta di una festa con Tony Vanderwell e amici nella quale si ubriacò. Punto e basta”.

– Con lei alla guida della squadra corse, quanti titoli conquistò la Ferrari?

“Due nel campionato piloti (Hawthorn nel 1958 e Phil Hill nel 1961), uno nel mondiale marche F1 (1961) e quattro nel mondiale marche Sport (1957, 1958, 1960, 1961)”.

– Questo non le impedì di lasciare la Ferrari con altri sette dirigenti a fine 1961.

“Una brutta storia. Ci dimettemmo per dei contrasti che erano insorti nei rapporti con la signora Laura Garello, la moglie di Ferrari, che interferiva, a volte anche pesantemente, nel nostro lavoro. Poveretta, non stava bene, la morte di Dino le aveva sconvolto la vita e un po’ anche la mente”.

– Da chi era composto quel gruppetto di “ribelli”?

“Ermanno Della Casa (direttore amministrativo), Gerolamo Gardini (direttore commerciale), Federico Giberti (direzione approvvigionamenti), Enzo Selmi (direttore del personale), Carlo Chiti (responsabile progettazione), Giotto Bizzarrini (responsabile sperimentazione prototipi), Fausto Galassi (responsabile della fonderia) e il sottoscritto”.

– Come rispose Ferrari alla vostra lettera di dimissioni?

“Licenziandoci in tronco. L’errore fu proprio quello di scrivergli (vi siete nascosti dietro una lettera, disse). Un errore dovuto a inesperienza e anche a un po’ di presunzione. Da tempo avremmo dovuto e voluto parlare direttamente con lui di quel problema imbarazzante, ma un po’ il nostro ritegno, un po’ perché lui, come intuiva l’argomento, sviava il discorso, optammo per la lettera. Si offese a morte e ci cacciò tutti quanti. E ci sostituì lanciando dei giovani, come ad esempio Mauro Forghieri, e dicendo: ho dovuto promuovere generali i caporali, perché i generali che avevo non si sono dimostrati all’altezza della situazione”.

– Qualcuno però tornò indietro.

“Sì, Della Casa e Giberti si pentirono e un mese più tardi lui li riprese”.

– Non sarà stato facile ricollocarsi.

“Mesi dopo ero ancora senza lavoro. Lui mi aveva fatto terra bruciata intorno. Mi vidi chiudere diverse porte, come quelle dell’Abarth, e dell’Autodelta. E dietro c’era lui, di sicuro”.

– Comunque poi, dal 1962 al 1963, ci fu la breve parentesi dell’ATS e infine Monza.

“Sì, Luigi Bertett, presidente dell’Automobile Club di Milano, voleva che l’Autodromo Nazionale fosse rilanciato, che non si limitasse a ospitare il G.P. d’Italia o poco più. Mi proposero l’incarico di responsabile della promozione e accettai con entusiasmo. Nacquero così la 1000 Chilometri (gara del campionato mondiale Sport Prototipi), la 4 Ore per il campionato europeo Turismo, il G.P. Lotteria per l’europeo F3. E poi la Formula 875, detta così perché la piccola monoposto derivata dalla meccanica della Fiat 500, che consentiva un esordio in corsa accessibile a molti giovani, costava appunto 875.000 lire”.

– Poi ci fu la CSAI.

“Sì, della promozione mi occupai dal 1964 al 1967, dopodiché Pietro Campanella fu eletto presidente della Commissione Sportiva dell’Automobile Club d’Italia e mi propose di diventare responsabile degli uffici di Milano. Accettai e divenni anche vice segretario nazionale (ossia vice dell’ingegnere Giuseppe Bacciagaluppi, che era anche direttore dell’autodromo di Monza)”.

– E poi?

“Poi, nel 1972, divenni il responsabile della pista a livello nazionale, mentre Gianni Restelli era responsabile a livello internazionale. Per un decennio Monza conobbe un’attività senza precedenti: una trentina di gare all’anno. Naturalmente ero mobilitato tutte le sante feste. Lavoravo dal mercoledì alla domenica e riposavo (cioè tornavo a Casinalbo) il lunedì e il martedì. Ero molto contento”.

– Ma non era finita.

“Macché, dal 1983 al 1991 fui responsabile di tutte le attività della pista di Monza: era accaduto che Gianni Restelli si era messo contro il presidente dell’A.C. Milano, il senatore DC Ripamonti, storie di ordinaria partitocrazia. Mantenni l’incarico fino al 1997, ‘cedendo’ peraltro il G.P. d’Italia nel 1992 a Giorgio Beghella Bartoli, perché con lo sviluppo della Formula 1 una gara del mondiale esigeva una direzione dedicata”.

– E la pensione?

“Arrivò anche quella, il 30 gennaio 1997, giorno del mio 71° compleanno”.

– Adesso si annoierà…

“Ma neanche per idea. Do una mano in casa, vado a prendere la mia nipotina Anna a scuola, vado a fare una partita a briscola al Bar degli Anziani, ma senza barare…”.

– Si parla di corse al bar?

“Con molta passione, magari troppa. Si figuri che ci sono dei vecchi irriducibili tifosi della Maserati che non possono, proprio non possono tenere per la Ferrari e allora tengono per la McLaren!”.

– Altri contatti con il vecchio mondo?

“Sì, ogni tanto mi invitano a Teleradiocittà, a commentare i Gran Premi. E poi, per la CSAI, ho un incarico di giudice conciliatore, per risolvere diatribe fra concorrenti senza scomodare la magistratura”.

– Qualche volta le viene in mente Enzo Ferrari?

“Come potrei dimenticarlo? È stato un punto di riferimento centrale nella mia esistenza, nel bene e nel male. Io comunque tendo sempre a ricordare il bene, i suoi insegnamenti, la sua forza, la sua capacità indomabile di piegare i fatti, non solo gli uomini, alla sua volontà, a vantaggio suo ma soprattutto della sua azienda”.

– Gigi Villoresi ha detto e ripetuto che Ferrari non conosceva la parola “grazie”.

“Lui non voleva esserti o apparirti grato. Voleva la tua gratitudine. Era un paternalista. Un paternalista invadente… che però non voleva essere  invaso…”.

– A un giovane che si accosta all’automobilismo che cosa si sentirebbe di dire?

“Lo sport va servito, non deve servire te: va servito per il successo di tutti. Ma non sono sicuro che mi capirebbe”.

 

 

[«Ferrarissima», n. 10 (Nuova serie), 1 ottobre 2001]