FURIA” PER SEMPRE  

Articolo pubblicato il 10-12-2022

FURIA” PER SEMPRE  

 di Gianni Cancellieri

L’intervista di Gianni Cancellieri all’Ing. Mauro Forghieri fu pubblicata in

“FERRARISSIMA”, N. 12 / LUGLIO 2002 e ci è stata trasmessa dall’Autore.

Siamo coetanei. Lui, nato a Modena il 13 gennaio 1935, ha 76 giorni meno di me. Ci conosciamo da quarant’anni, la considerazione reciproca sfocia in una confidenza inevitabile, il distacco fra intervistatore e intervistato va a farsi benedire. Io penso a lui come a uno degli uomini che hanno maggiormente contribuito a far diventare grande la Ferrari. Lui di me pensa che sono “uno dei pochi giornalisti quasi onesti” e me lo ripete ridendo ogni volta che ci incrociamo. Mauro Forghieri, in arte “Furia”, in tutto questo tempo è cambiato pochissimo. Ha ancora i capelli quasi neri, qualche segno sul viso, pesa forse qualche ettogrammo in più, continua a scrutare il mondo attraverso quelle spesse lenti che dilatano i suoi occhi mobilissimi e curiosi. E scandisce le parole con un’intensità di tono che lo caratterizza inconfondibilmente. Anche quando esprime il più pacato dei giudizi, anche quando dà prova di equilibrio e misura innegabili, si sente che sotto sotto arde generosamente il fuoco della passione di sempre.

Ti arrabbiavi quando ti chiamavano “Furia”?

No, guarda che è il contrario: mi chiamavano Furia perché ogni tanto mi arrabbiavo.

– Non tutti i lettori sanno o ricordano chi era Furia.

Era un bel cavallo, nero e focoso, protagonista di una serie televisiva, molto popolare fra i ragazzini prima dell’invasione dei cartoni giapponesi. Comunque, il paragone con un cavallo mi stava bene. Se si fosse trattato di un asino magari mi sarebbe piaciuto meno…

Le tue sfuriate con meccanici e collaboratori vari erano originate dall’esecuzione di lavori non conforme alle tue indicazioni?

In genere sì: in un lavoro di squadra, nella valutazione dall’esterno, il capo è responsabile dell’attività di tutti; ma all’interno lui non può non tener conto delle responsabilità dei singoli. Ad ogni modo non credo di avere mai mancato di rispetto a nessuno. Ogni tanto gridavo, questo sì. Era più forte di me.

Comunque non gridavi soltanto con i meccanici o in generale con chi era sottoposto a te.

Beh, sarebbe stato un po’ troppo facile, o diciamo poco sportivo, non ti pare? No no, se Enzo Ferrari in persona mi faceva perdere la pazienza urlavo anche con lui.

Avevate due temperamenti per qualche aspetto molto affini, sbaglio?

Proprio così, e anche per questo ogni tanto ci scontravamo.

Spesso?

No, non tramandiamo leggende. Litigavamo quando non potevamo farne a meno. Lui gridava, diventava rosso in viso e io diventavo più rosso di lui e urlavo più forte.

Sapevi di potertelo permettere.

Diciamo fino a un certo punto. Lui era ben consapevole del fatto che tutti e due avevamo a cuore la stessa cosa, perseguivamo lo stesso obiettivo: il successo della squadra, di una macchina, di una scelta progettuale e via dicendo. Ma le strade che partono da un’idea per condurre alla sua realizzazione sono tante. Nell’ambito di una ricerca se ne può esplorare anche diverse, ma poi bisogna imboccarne una e percorrerla fino in fondo. Ecco su questo punto potevano esserci dei contrasti.

Anche perché, diciamolo pure, Ferrari non era un tecnico.

Questo è vero soprattutto sul piano teorico. Ma quando si passava alla fase realizzativa si muoveva dando prova di una capacità d’intuizione che non ha mai smesso di sorprendermi. Non dimentichiamo che era un uomo dell’Ottocento.

D’accordo, ma su certe scelte strategiche sembra attribuibile a lui il ritardo con cui la Ferrari si adeguò a indirizzi tecnici vincenti: penso ai freni a disco, al motore posteriore…

No, attenzione, non dimentichiamo che a volte entrano in gioco motivazioni economiche o politiche – di politica aziendale, dico – che possono prevalere, almeno per un po’ di tempo, su quelle di ordine tecnico. Il caso dei freni a disco è emblematico: non è pensabile che Ferrari “non capisse” la loro superiorità nei confronti di quelli a tamburo. Il fatto è che, come del resto lui stesso ha scritto, aveva in corso un contratto triennale con il brevetto Alfin (fusione dell’anello di ghisa nel tamburo di alluminio) che al momento della stipula era quanto di meglio la tecnica offrisse. Poi, quando risultò superato, la fabbrica impiegò ancora un certo tempo per arrivare all’indispensabile conversione. Ma il suo non fu un caso unico: basti pensare alla Porsche, che continuò per un bel po’ con i tamburi pur di non acquistare i brevetti inglesi Girling o Dunlop.

E il motore posteriore? La storia dei cavalli che devono stare davanti e non dietro al carro?

Chissà se questa battuta è vera. Chissà, voglio dire, se Ferrari l’ha detta per davvero o se, come sosteneva lui, gli è stata fatta dire…

Sempre colpa dei giornalisti?

Ma dài, non fare la vittima. Anche su questo tema va chiarito un equivoco: Ferrari non sarà stato un maestro della tecnica, d’accordo, ma nemmeno ignaro al punto da non capire perché le Cooper strapazzavano le sue macchine e vincevano il campionato del mondo. Il punto è un altro: alla fine degli anni Cinquanta la produzione delle Ferrari Gran Turismo incominciava ad acquistare una bella consistenza, aumentando grosso modo di un centinaio di unità all’anno, 100, 200, 300, 400 e via così. Erano naturalmente tutte automobili a motore anteriore, e Ferrari temeva che se nelle corse avessero cominciato a imporsi macchine del Cavallino con il propulsore alle spalle del pilota, il valore prezioso dell’identità di marca avrebbe potuto in qualche modo riceverne un danno, o insomma apparire come un’immagine sdoppiata. Una paura irrazionale, vista col senno di poi, ma non proprio campata in aria. A fargliela vincere furono Chiti e Bizzarrini, oltreché, si capisce, gli insuccessi.

A nessuno piace perdere, ma a Ferrari meno che a chiunque altro.

Detestava “arrivare dopo”. Ma quando ciò avveniva voleva soprattutto capire il perché. Se si convinceva che i suoi piloti non avevano dato l’anima, li stimolava, se li lavorava, riuscendo in un modo o nell’altro ad alimentarne la rivalità: in questo aveva un’abilità diabolica. Se invece doveva rassegnarsi ad accettare il fatto che la “colpa” era delle sue macchine, soffriva di più, ma naturalmente aveva altri uomini con cui prendersela: i suoi tecnici.

E quando si vinceva lesinava gli elogi?

Aveva un suo modo strano, indiretto, a volte ironico, sempre con l’aria di sottintendere: “Va bene, abbiamo vinto ma non montarti la testa”. Indubbiamente efficace, ad ogni modo: che fosse un comunicatore d’eccezione non devo certo scoprirlo io. Per esempio, dopo una corsa in cui le nostre macchine avevano conquistato i primi due posti, al telefono mi chiese ridendo: “Come mai al terzo abbiamo dato solo venti secondi di distacco?”.

Dal 1959 al 1986: ventotto anni alla Ferrari. Come dire una vita.

Una delle mie vite. Comunque, gli anni migliori. Compensati con molta gloria e non molti soldi: niente, in confronto alle cifre che girano oggi. Anni che “pagai” offrendo troppa dedizione.

Troppa?

Sì, una follia. È forse l’unico rimpianto che ho: il tempo infinito speso nello studio e nel lavoro e sottratto alla mia famiglia. Non rinnego la scelta in sé, sono fatto così, ma la quantità dell’impegno era enorme, quasi disumana.

Ripensando ai tuoi primi quindici anni in Ferrari si resta senza fiato. Nell’intera storia dello sport automobilistico non trovo un esempio che regga il paragone con ciò che facevate a Maranello. Correvate ovunque: Mondiale Formula 1, Mondiale Sport-prototipi, Mondiale Gran Turismo, Europeo Formula 2, Europeo della Montagna, Can-Am, Coppa Tasmania… Una flessibilità che si stenta a immaginare.

La Ferrari era cresciuta e così pure l’ambizione del Capo. Pensava di poter emergere ovunque e, naturalmente, ogni tanto arrivava qualche risultato che lo rafforzava in questo convincimento. Ma altrettanto naturalmente arrivavano delle batoste e, in fin dei conti, il bilancio complessivo registrava un dispendio enorme di mezzi economici e di energie nonché una dispersione incredibile di sforzi tecnici e organizzativi. Uno sproposito. Per fortuna riuscimmo a convincerlo a concentrare tutto sulla Formula 1, ma dovette arrivare il 1974. Non a caso nel 1975 tornammo a vincere il titolo mondiale dopo undici anni.

Quanto a titoli mondiali, il tuo albo d’oro ne annovera una bella dozzina (8 per costruttori e 4 per piloti). E ci limitiamo alla Formula 1, lasciando da parte tutte le altre categorie. Come si diventa così bravi? Come si impara a progettare tante macchine vincenti?

Ho avuto grandi maestri: e questa è una fortuna impagabile. A cominciare dall’università: Belluzzi, Pozzati, Morandi, non posso dimenticarli.

Ma allora non pensavi alle macchine da corsa, è così?

Macché. A vent’anni sognavo l’America, disegnavo delle automobili – che comunque mi interessavano – ma anche case, oggetti, quel che mi frullava in capo. La mia tesi di laurea proponeva il progetto di una vettura commerciale a destinazione europea, basata sulla meccanica di una macchina francese che ho sempre considerato un piccolo capolavoro di concezione, la Panhard Dyna, ovvero, come tutti la chiamavamo, la Dyna Panhard.

Seguì un breve periodo dedicato all’insegnamento e subito dopo entrasti alla Ferrari.

Sì, ma a dire il vero c’era un piccolo precedente. Mio padre mi aveva fatto conoscere Enzo Ferrari, con cui aveva lavorato fin dal tempo dell’Alfetta 158, costruita a Modena prima della guerra. Ferrari si interessò all’andamento dei miei studi e mi disse: “Se ti piacciono le macchine, vieni un po’ da noi: vedrai che c’è da imparare”. Fu così che feci uno stage a Maranello, un mese e mezzo o giù di lì. Era il 1956. Non eseguii più di qualche piccolo disegno ma con la supervisione del responsabile tecnico, il giovane ingegnere toscano Andrea Fraschetti. Un tecnico d’eccezione, una mentalità aperta sull’oggi e proiettata sul domani. Un domani di cui disgraziatamente vide solo l’alba, perché si uccise un anno più tardi in un incidente di collaudo. Conto anche lui fra i miei maestri, malgrado la brevità di quell’esperienza.

Nel 1959 eri il solo giovane ingegnere a Maranello?

No, quasi contemporaneamente a me fu assunto Gian Paolo Dallara, fresco di laurea anche lui, che tuttavia dopo un paio di anni se ne andò. Non riusciva a ingranare in un sistema di lavoro che sentiva come estraneo a sé: non è un caso che alla fine abbia unito il suo talento di progettista a una capacità di intrapresa che ne ha fatto un costruttore di grande successo.

In che cosa consisteva questo “sistema Ferrari”?

Solo per rispondere a questa domanda si potrebbe scrivere un libro. Limitiamoci a dire che, prima e soprattutto, l’azienda era piccola: ai più attenti fra gli osservatori esterni appariva sottodimensionata rispetto agli obiettivi che si prefiggeva e ai mezzi economici di cui disponeva.

E questo gap oggettivo come si colmava?

Con… la furia. Con una sorta di fervore missionario e un ricorso molto italiano alla improvvisazione. Naturalmente sto esagerando, ma lo faccio per chiarire il concetto: è chiaro che con la sola improvvisazione non saremmo andati da nessuna parte e invece sembra che di strada ne abbiamo fatta parecchia. La fabbrica aveva i suoi know-how, ci mancherebbe, aveva un patrimonio straordinario di esperienze che grazie alla sagacia e alla lungimiranza imprenditoriale di Enzo Ferrari era stato tesaurizzato, codificato e, come dire, mantenuto vivo nonché continuamente arricchito.

Alla razionalizzazione metodologica si arrivò più avanti.

Sì, l’evoluzione, la vera e propria ‘crescita’ della squadra richiese i suoi tempi tecnici. Un forte impulso in tal senso venne da un personaggio il cui ruolo è storicamente sottovalutato. Mi riferisco a Eugenio Dragoni, che non fu soltanto un direttore sportivo ma anche un grande organizzatore. Fu lui a gettare le basi della trasformazione della Scuderia in un team moderno e professionale, lavoro che fu portato a compimento anni dopo da Luca di Montezemolo.

Come si lavorava con Chiti e Bizzarrini?

Carlo Chiti era il direttore tecnico e Giotto Bizzarrini il responsabile dello sviluppo e dei collaudi. Io ero l’ultimo arrivato e ovviamente avevo tutto da imparare. Ma devo dire che mi affidarono dei compiti e me li lasciarono svolgere con soddisfacente autonomia.

C’era anche un consulente d’eccezione: il grande Vittorio Jano.

Ah, Jano! Altro maestro superlativo. Posso dire che tutto quello che so in fatto di motori da corsa l’ho imparato da lui.

E in fatto di telai?

Diamo agli inglesi quello che è degli inglesi. Alla fine del 1961 ci fu il famigerato terremoto di Maranello, con l’uscita di scena dei più importanti dirigenti e la mia promozione a responsabile tecnico. Non avevo ancora compiuto 27 anni e un po’ di… sano terrore temperava la mia innegabile soddisfazione (anche se quando Ferrari disse “ho dovuto mettere dei caporali al posto dei generali” non lo presi come il più lusinghiero degli apprezzamenti). Bene, tra l’autunno del 1961 e la primavera del 1962 ci fu il “programma Moss”. Moss era l’indiscusso numero uno al mondo: Ferrari avrebbe fatto carte false per vederlo al volante di una sua macchina: una macchina ufficiale, dico, perché su diverse Ferrari private Stirling aveva già corso e vinto qua e là.

Ricordo che la trattativa fu alquanto complessa.

Sì, tutt’altro che facile, ma alla fine si raggiunse un compromesso, che metteva d’accordo l’ambizione del costruttore con quella del pilota, il quale fra l’altro era legato a diversi sponsor personali con contratti esclusivi. Per dire: Moss non si sarebbe mai potuto sedere nell’abitacolo di una Ferrari ufficiale, sponsorizzata da Shell, con il marchio BP sulla tuta. Inoltre era particolarmente affezionato a Rob Walker e alla sua scuderia, con cui aveva ottenuto magnifici successi. Ferrari – contro le previsioni di molti – accettò: nel 1962 Stirling avrebbe corso il Mondiale F1 con una 156 uguale a quelle ufficiali ma dipinta di blu con la riga bianca, la livrea del Walker Racing Team.

Poi però non se ne fece nulla.

È noto che il programma naufragò, a causa dell’incidente che pose fine alla carriera di Moss il lunedì di Pasqua del 1962. In quei mesi, comunque – per tornare al tema dei telai – ebbi diversi contatti con gli inglesi, perché si era stabilito che l’assistenza alla macchina di Moss l’avrebbe fornita la Ferrari in collaborazione con Alf Francis, da anni il meccanico di fiducia del campione. Fra l’altro entrai in contatto con Tony Robinson, che lavorava al progetto della BRP, una F1 destinata a correre nel 1963. Nel frattempo collaborava anche con un’altra scuderia, la Bowmaker di Tim Parnell, che a quel tempo costruì su licenza alcune Lotus 24 e mi fu data l’opportunità di vedere come. Fu un’esperienza molto utile, perché negarlo, anche se non certo definitiva. Nella tecnica non c’è mai niente di definitivo. Un po’ come nella vita, del resto.

La costruzione delle macchine da corsa mi è sempre sembrata una corsa essa stessa. C’è chi va al comando, chi segue, chi abbandona…

E c’è un avvicendamento più o meno frequente fra le posizioni: per fortuna, vien da dire. Certi traguardi li abbiamo raggiunti prima noi, su altri siamo stati preceduti.

La Ferrari, in ogni caso, può vantare molti primati innovativi. Sii immodesto ed elencane qualcuno del tempo che hai trascorso a Maranello.

La modestia è fuori discussione. Quelle priorità sono della Ferrari, non mie.

Vuoi proprio fare la mammoletta! A dirigere le operazioni non c’eri tu?

Sì, ma ho sempre fatto riferimento alla squadra come la squadra faceva con me. Ho avuto più apparizioni in tv, più foto sui giornali, questo sì, per il semplice fatto che andavo alle corse: chi resta in ufficio o in fabbrica ha meno considerazione mediatica, è inevitabile. Ma ho cercato di tenere, nei limiti del possibile, un profilo sostanzialmente basso.

Anche questo forse è un segreto della tua durata in Ferrari?

Penso di sì: Ferrari era geloso. Il successo personale dei suoi uomini, piloti o tecnici che fossero, doveva essere una conseguenza del loro appartenere alla Ferrari. Dovevano brillare di luce riflessa. Se pretendevano di essere loro a illuminare la Ferrari, erano guai.

Va bene. Adesso però ricorda ai lettori qualcuna delle innovazioni di cui sopra, anche perché non è che tutti sappiano tutto in proposito. Anzi, molti procedono ancora secondo vecchi e assurdi schemi mentali…

Sì, le macchine bisogna lasciarle fare ai tedeschi, gli orologi agli svizzeri, il vino ai francesi, la pasta asciutta agli italiani e che si accontentino. Bene: allora diciamo che, fra… una spaghettata e l’altra, abbiamo montato il primo spoiler posteriore (1961, sulla 246 SP: per la storia, da un’idea di Vittorio Jano). Beh, te ne elenco ancora un po’ alla rinfusa, tu metti in ordine e controlla le date, grazie. Allora: il roll bar aerodinamico (1962, 268 SP); il motore come elemento portante del telaio (1964, 158); il motore a 12 cilindri contrapposti (1964, 512: esistono precedenti Alfa Romeo e Cisitalia, ma non hanno corso); l’alettone mobile e la sua versione comandata dal pilota (1968, 312 F1); il cambio trasversale (1975, 312 T); le carenature aerodinamiche per le ruote anteriori (1975, 312 T2); il cambio semiautomatico per una vettura da corsa (1979, 312 T4); le alette posteriori ausiliarie (1983, 126 C2B); l’iniezione d’acqua nel motore turbo (1983, 126 C2B) e altro.

Questo “altro”, se non ricordo male, comprende anche certe impostazioni di metodo organizzativo.

Esatto. Fummo noi, per esempio, a introdurre il ruolo del capomeccanico e della squadra responsabile per ogni macchina in gara. Forse contemporaneamente alla Lotus. Tutti gli altri seguirono a ruota.

Poi un giorno la bella storia finì. Nel 1984, addio Formula 1 e approdo all’Ufficio studi avanzati e poi a capo della neonata Ferrari Engineering. Sorvoliamo sui “perché” dell’evento?

Ma sì, è meglio, a chi vuoi che interessino? Oltretutto è una storia complicata e noiosa. Ferrari, che in un certo senso mi aveva “creato”, avrebbe potuto anche “distruggermi” ma non lo fece. Non volle farlo o semplicemente non ci riuscì? Non lo so. Quello che so è che doveva prestare orecchio a troppe bocche e si avvicinava ai novant’anni. Ad ogni modo in quel periodo lavorai ugualmente con soddisfazione: la 408/4RM fu concepita allora e disegnata al computer. Vide la luce nel 1987 come prototipo sperimentale per collaudare nuovi materiali e componenti e con un sistema di trazione integrale d’avanguardia.

Ma subito dopo ci fu l’addio a Maranello e un ritorno alla Formula 1.

Sì, un ritorno non molto fortunato, purtroppo. La Chrysler aveva incorporato la Lamborghini, che Lee Iacocca decise di promuovere avviando un programma di fornitura di motori per la F1. Per quello assunse me. Creai una nuova struttura, la Lamborghini Engineering e si partì lavorando sul magnifico 12 cilindri che avevamo in casa, che fu accoppiato a un nuovo cambio trasversale. L’elaborazione diede qualche discreto risultato con la Lola, la Lotus e la Larrousse. Senonché, nel frattempo, la Chrysler entrò in una pesante crisi e l’operazione fu ridimensionata.

A quel punto però ci fu un inatteso rilancio.

Ma sì, fu il presidente della Lamborghini, Emile Novaro, a volere una monoposto completa da far correre con i colori di un inedito Modena Team, di proprietà del vicepresidente della Confindustria Carlo Patrucco, e io non mi tirai certo indietro. Nacque così la Lambo, che disputò il Mondiale 1991 con Larini e van de Poele. Non partimmo affatto male: Larini fu subito settimo a Phoenix e van de Poele nono a Imola dopo avere occupato la quinta posizione fino all’ultimo giro, fermandosi poi per mancanza di benzina. Ma senza mezzi per lo sviluppo, la macchina non riuscì a raggiungere un livello di competitività accettabile e anche questa avventura ebbe termine. E malauguratamente in modo molto spiacevole, perché i debiti condussero il team al fallimento, con gente a spasso, un disastro. Rimase la soddisfazione di un test compiuto con il nostro motore montato sulla McLaren e conclusosi con un giudizio lusinghiero. Il tester si chiamava Ayrton Senna.

Il tuo curriculum… è interminabile: c’è il progetto di un minivan a trazione elettrica, nell’ambito di un programma di ricerca dell’ENEL, per la sperimentazione di centrali di batterie. E c’è ancora la direzione tecnica della Bugatti, dal 1993 al 1994.

Anche quella vicenda non ebbe un lieto fine. L’azienda chiuse i battenti ma per buona sorte fu poi rilevata dal gruppo Volkswagen, che salvò un nome glorioso.

Infine, ORAL Engineering.

Sì, sono consulente di questa piccola ma efficientissima azienda di ricerca e progettazione, che fa parte del Gruppo ORAL, presieduto dal fondatore Sergio Lugli e comprendente cinque società. La ORAL Engineering, nata nel 1995, è diretta da Franco Antoniazzi, che è stato con me alla Ferrari e alla Lamborghini, ma che ha maturato altresì esperienze alla Gilera, all’Alfa Romeo e all’Aprilia. Progettiamo e costruiamo prototipi di motori per diverse industrie o modifichiamo quelli che ci vengono sottoposti per essere sviluppati o elaborati, ma non solo motori, anche cambi e altro.

La tua popolarità è molto vasta anche fra le giovani generazioni, che non possono averti seguito al tempo della Ferrari: merito dei tuoi commenti ai Gran Premi su Tele+, suppongo. E a proposito di Gran Premi: conosci qualche antidoto agli sbadigli che spesso provocano?

Ci sono molte cose che non vanno, magari non tutte connesse con la qualità dello spettacolo, ma che comunque non vanno. Intanto, i rifornimenti di carburante in gara sarebbero da abolire.

Ma bravo, offrono uno dei pochi motivi di interesse agonistico, se non di emozione!

Non so che dire: sono un artificio miserello per la specialità di punta dell’automobilismo. Cioè, possono creare una selezione basata sui tempi e i modi degli interventi al box, ma dal punto di vista tecnico producono un indiscutibile appiattimento.

Perché?

Ma perché il problema dell’assetto di una vettura è ridotto al minimo. Se parti con 200 litri e arrivi con 5, devi adattare progressivamente la tua guida e se sei bravo ti puoi avvantaggiare. Se invece corri sempre con 80 litri, la tenuta di strada della tua macchina sarà sempre uguale. E dove mettiamo l’ipocrisia del peso minimo?

Non capisco: non può non essere rispettato.

Certo, “formalmente”: ma nella sostanza si lima su tutto e poi si recupera con zavorre dell’ordine di un quintale. Ci sono dei basamenti lavorati fuori e dentro, di una fragilità inaudita: quando va bene durano un Gran Premio e mezzo.

E i freni al carbonio?

Da abolire. La loro efficacia mette tutti i piloti in condizione di frenare negli ultimissimi metri che precedono una curva: a quel punto non solo manca lo spazio ma anche il tempo per tentare un sorpasso. E poi tutta quella polvere di carbonio che sprigionano è cancerogena, e questa non mi sembra una considerazione secondaria.

Altre regole che cambieresti?

Non farmi apparire esagerato o il “Furia” di sempre. Però… quelle comunicazioni via radio a chi sta per essere doppiato, con l’ordine di dare strada senza indugio a scanso di guai, non mi sembrano il massimo della sportività. Il Gran Premio è di tutti i piloti, anche dei doppiati. Naturalmente non intendo giustificare e tanto meno incoraggiare l’ostruzionismo. Però chi vuole compiere un sorpasso se lo dovrebbe guadagnare. Almeno nello sport.