Monza, terra promessa.

Articolo pubblicato il 07-09-2021

Monza, terra promessa.

Gianni Cancellieri non si offenderà se lo indichiamo come il Decano dei giornalisti dell’automobile. In fondo Charles Faroux e Giovanni Canestrini erano tra quelli chiamati così. Ma Gianni ha in più il merito di avere a lungo e costantemente operato per rendere visibile  e rigorosa la Storia dell’Automobile. Perciò è il Maestro di tutti noi.

Questo suo pezzo richiama la meraviglia di un ragazzo durante le domeniche Monzesi  del secondo dopoguerra. (Nella foto, Gianni a bordo di una Alfetta in occasione della presentazione dell’Alfa Romeo 1750 a Grignano (Trieste), giugno 1968).

Lo zio Fiorindo era un grande pilota. No, per carità, non guidava né aerei né macchine da corsa: bisogna sapere che nelle campagne del Mantovano – riva sinistra del Mincio – un «pilota» si chiama così perché coniuga il verbo «pilare», non pilotare. E «pila» è in genere un mulino dove viene appunto «pilato» il riso: i chicchi vengono liberati dal loro involucro dorato e sono pronti per il cosiddetto «risotto alla pilota», piatto fra i più amati della cucina mantovana ma che con Nuvolari, pure mantovanissimo, non c’entra proprio niente. E per non divagare ancor più evito di spiegare perché non si tratta di un risotto bensì di un «riso alla pilotta», con due t, battaglia filologica che combatto senza speranza.

                        Lo zio Fiorindo lasciava la pila due o tre giorni all’anno e uno di questi era immancabilmente la domenica del Gran Premio d’Italia. È del dopoguerra che parlo, dal ’49 in poi, da quando Monza riebbe la sua grande corsa. Lo zio – che poi non era uno zio vero e proprio, ma fa niente – si presentava a casa mia all’alba. Si era tolto di dosso la polvere del riso nella quale viveva immerso perpetuamente, si era rasato alla perfezione e vestiva con un’eleganza che a me pareva straordinaria, camicia immacolata, un bel «Principe di Galles», cravatta in tinta unita, secondo i canoni classici del tempo.

                        Io la notte ben difficilmente avevo chiuso occhio, ma ero sveglio come un grillo. Saltavo sulla bellissima Fiat «millecinque» – sei cilindri, ragazzi, sedili di cuoio rosso – e via! Con noi veniva di solito un meccanico di nome Fortunato, che tutti chiamavamo «Nato», motorista eccezionale, con un talento diagnostico infallibile, e analoga capacità di intervento, in tempi nei quali l’elettronica era pura fantascienza.

                        La «provinciale» – la strada, dico – tagliava le risaie ancora verdi, intersecate dalle immancabili altissime quinte di pioppi. Poi a Brescia, l’autostrada: e qui lo zio schiacciava a tavoletta, 100, 110, in qualche tratto 120…

                        Monza ci veniva incontro come la terra promessa. Compravamo biglietti di «prato», mangiavamo panini e andavamo a curiosare vicino ai garage, dove i meccanici scaldavano i motori dei bolidi. Io ero molto emozionato (avevo i calzoni corti…), «Nato» era addirittura in preda all’esaltazione e bestemmiava di gusto, masticando il mezzo toscano che gli pendeva perennemente dal labbro. Lo zio Fiorindo sorrideva compassato, con un’aria quasi inglese, anche quella volta in cui «Nato», eccitatissimo, destò l’ilarità generale urlando in dialetto all’indirizzo dei meccanici di Étancelin alle prese con i capricci della Talbot: – Varda che la va a sinque! (guarda che sta andando a cinque cilindri).

                        La Ferrari 125, di cilindri ne aveva dodici e quel giorno consacrò un idolo nascente, Alberto Ascari, che stravinse dando un giro proprio a «Phi-Phi» Étancelin. Alberto, detto «Ciccio», aveva ripetuto sulla stessa pista l’impresa compiuta venticinque anni prima da suo padre Antonio, come ricordava l’indomani sulla Gazzetta dello Sport Giovanni Canestrini.

                        L’anno dopo tornammo tutti e tre a Monza, puntuali all’irresistibile richiamo di quel mondo per noi assolutamente favoloso: le macchine ruggenti e sfavillanti nelle loro superbe livree nazionali, i piloti spesso infagottati in tute non dissimili da quelle dei meccanici (Ascari no, sfoggiava già la sua maglietta azzurra), l’immensa moltitudine scamiciata, l’incontenibile odore dell’olio di ricino bruciato che impregnava, credo, perfino i nostri panini…

                        Fu in quel 1950 che ci scoprimmo, io e «Nato», a tifare su barricate opposte, io Ascari e lui Fangio: lo zio non si comprometteva, forse tifava «italiano» e basta. Alla fine si impose Farina e mise d’accordo tutti, vincendo il primo «Campionato Mondiale Conduttori», istituito proprio quell’anno, con la stupefacente Alfetta 158 dal sibilo deliziosamente infernale.

                        Ascari mi esaltò vincendo l’edizione successiva del Gran Premio ma Fangio si affermò poi a Barcellona, dando all’Alfa Romeo il secondo titolo iridato consecutivo e… convinse anche lo zio Fiorindo, che abbandonò – senza troppi rimpianti, mi parve – la Fiat 1500 e si comprò un’Alfa 1900 appena uscita di fabbrica. L’Alfa, ahimè, lasciò frattanto la F.1, ma tornare a Monza con una macchina della stessa marca di quella campione del mondo, non era comunque uno scherzo. E l’autostrada a 150 all’ora? Sì, lo so, sembrano discorsi naïf, ma vanno rapportati al 1952, quando, fra l’altro, le automobili in circolazione in Italia erano mezzo milione in tutto. E di Alfa Romeo 1900 – «la macchina di famiglia che vince le corse», la definiva la pubblicità – ce n’era proprio pochine.

                        Ma era scoccata l’ora della Ferrari, che a sua volta vinse con Ascari due titoli consecutivi. Monza ’52 fu una passerella trionfale per «Ciccio», che aveva il campionato già in tasca ancor prima di prendere il via. «Nato» era nervoso, sputava mozziconi di toscano e io lo sentivo bestemmiare sottovoce: per forza Ascari aveva vita facile, Fangio non c’era, si era fatto male nell’unico incidente serio della sua carriera, nel giugno di quell’anno. Fangio si prese la rivincita a Monza nel 1953 ma il titolo fu ancora di Ascari, dopodiché nessuno avrebbe più saputo opporsi al fantastico decollo dell’argentino: quattro titoli in fila! Certo, a quel punto lì, con «Nato» non si poteva più discutere. «Fangìn», come lui lo chiamava, vinse nel 1954 con la poderosa Mercedes W196 carenata e fece il bis l’anno appresso, scatenato con quella freccia d’argento imprendibile, sui rettifili e sui curvoni sopraelevati del nuovissimo anello di alta velocità. Ma quell’anno, purtroppo, assente all’appello di Monza era il mio povero Ciccio Ascari, volato via in maggio a quella curva che ancora oggi, chicane a parte, ricorda il suo nome.

                        Tutti e tre ci ritrovammo meno lieti del solito alla fine di quel dì di festa. E io pensavo che la storia delle corse aveva comunque voltato pagina. Io stesso, del resto, non portavo più da tempo i pantaloni corti.